INTERVISTA A EDITH BRUCK, LA SCRITTRICE SI RACCONTA A LA FINESTRA DELLA LETTERATURA.



È stato un immenso onore oltre che piacere chiacchierare con Edith Bruck.
Una chiacchierata quasi intima, richiamando alla memoria il suo passato.
Poche persone sono capaci di pensieri ricchi di profondità, di umanità, di gentilezza come lei.


D: DURANTE IL PERIODO DI PRIGIONIA HA RACCONTATO DI UN TEDESCO CHE LE LANCIÒ UNA GAVETTA DENTRO CUI C'ERA DELLA MARMELLATA. OLTRE A  QUESTO EPISODIO HA MAI TROVATO QUALCHE SOLDATO TEDESCO “UMANO” O QUALCUNO TRA LE SS CHE AVESSE ANCORA INTATTO DENTRO DI SÉ IL SENSO DELLA DIGNITÀ UMANA E DELLA SOLIDARIETÀ?

R: No, mai, era impossibile una cosa del genere, non ho mai più rivisto nessuno, neanche i miei compagni di prigionia,mai rivisti né incontrati.


D: CI RACCONTI ALCUNI EPISODI CHE LE SONO ACCADUTI AD AUSCHWITZ E POI NEI CAMPI DI  KAUFERING, LANDSBERG, DACHAU, CHRISTIANSTADT E, BERGEN-BELSEN?

R: Prima di tutto la speranza di ritornare a casa,di ritrovare magari i miei genitori. Per esempio,ad Auschwitz un soldato tedesco si è chinato su di me e mi ha sussurrato “Vai a destra,vai a destra” durante l'ultima selezione buttò mia madre per terra e fu l'ultima volta che la vidi e poi aggredì anche me violentemente, finché non mi sono trovata a destra e solo dopo capì che in fondo mi diede una minima possibilità per sopravvivere. E poi dopo, invece l'altra speranza in quelle circostanze così incredibili accadde a Dachau, avevo portato delle patate pelate in cucina e il cuoco mi chiese “Come ti chiami?” mi parve come una voce dal cielo,non capivo com'era possibile una cosa del genere perché era assolutamente impossibile. Mi disse anche “Ho una bambina piccola come te”, mi regalò un pettinino. Lì eravamo soltanto un numero,con gli zoccoli,calvi non eravamo delle persone non eravamo assolutamente nulla ci chiamavano come i numeri che avevamo al collo perché non c'era più tempo di tatuare gli Ebrei Ungheresi che son stati deportati per ultimi. 
E poi c'è l'ultimo soldato che non mi ha sparato, perché doveva spararmi. Quindi tutti questi cinque punti,che io chiamo cinque punti di luce, secondo me,mi hanno aiutato a sopravvivere, il resto ,era tutta morte,fame, freddo,con il terrore che non ti svegli la mattina, l'essere umano spera sempre si aggrappa anche a un filo di erba pur di sopravvivere, nessuno vuole morire da nessuna parte anche in nessuna situazione, anche in situazioni estreme lotta per la propria sopravvivenza fino all'ultimo anche se sembra impossibile, la vita è più forte di qualsiasi cosa secondo me, poi si capisce soltanto quando si è in pericolo quanto è preziosa la vita, quanto è prezioso il valore di un pezzo di pane.


D: DOPO L' OLOCAUSTO ALCUNI INTELLETTUALI COME PRIMO LEVI, SI SONO INTERROGATI SULL' ESISTENZA DI DIO; ANZI PRIMO LEVI CONCLUSE DICENDO CHE , DOPO AUSCHWITZ DIO , NON POTEVA PIÙ ESISTERE. QUAL' É LA SUA OPINIONE AL RIGUARDO?

R: Furono altri a discutere dell'assenza di Dio a Auschwitz.Uno di loro fu Elie Wiesel. Con Primo Levi eravamo amici fino all'ultimo,non è che discutessimo su Dio, Primo era abbastanza laico. Io credo che bisogna lasciare fuori Dio da questi terribili misfatti che l'uomo fa giorno per giorno. Per nome di Dio o Allah hanno ammazzato milioni di persone, anche i tedeschi avevano nella cintura scritto “Dio è con noi”.Io stessa ho scritto una lettera a Dio nel libro “Pane Perduto” però sin da bambina ho dubbi sulla sua esistenza.  
Mia madre parlava più con Dio che con noi sei figli. Chiedeva a Dio tutto,dalle scarpe,al cappotto,al pane. Le dicevo “Mamma parla con noi, tanto non ti ascolta”, nel senso che non ero arrabbiata ma seccata sicuramente. Non mi piace parlare né di fede né di Dio. Secondo me il comportamento dell' essere umano è quello che conta. Non odiare nessuno al mondo,io non odio neanche i miei aguzzini. L'unica cosa che conosco è la pietà. Posso solo ringraziare a Dio solo se esiste un Dio.


D: NEL 1954, SPINTA DALL'IMPOSSIBILITÀ DI INSERIRSI E DI RICONOSCERSI NEL PAESE IMMAGINATO "DI LATTE E MIELE", GIUNGE IN ITALIA E SI STABILISCE A ROMA, DOVE ANCORA OGGI RISIEDE. PERCHÉ DOPO LA LIBERAZIONE IN MOLTI NON VI SIETE SENTITI NÉ A CASA NÉ AL SICURO IN EUROPA?

R: Non sapevo dove vivere, la nostra piccola casa era stata distrutta e nel mio paese i contadini ci hanno cacciate via me e mia sorella con l'accetta, allora abbiamo vissuto per due mesi da una sorella, poi per altri due mesi in una specie di orfanotrofio, successivamente in diversi campi di transito. Non sapevamo dove andare e quindi abbiamo incominciato ad andare in un paese all'altro con il piano di andare un giorno in Palestina, quello che era il sogno della mamma, da bambina non si cenava e prima di mettermi a dormire mi raccontava questa favola “Saremo tutti fratelli - Saremo felici lì”.Sono arrivata in Israele dove ho vissuto per due anni circa.Anche lì, non riuscivo a inserirmi. Del paradiso terrestre da lei sognato nemmeno l'ombra, non poteva esserci dopo la guerra arabo-israeliana del 1948. 
Non ci hanno accolto, né ascoltate, volevamo raccontare ma ci hanno zittite.
Volevo in qualche maniera essere accolta a braccia aperte, ma questo non è successo, eravamo totalmente smarriti in un mondo in macerie dopo la guerra. Ognuno si occupava dei propri problemi, del proprio vissuto. Eravamo soltanto una specie di avanzi di vita e basta. Ho cominciato a emigrare in un paese all'altro finché mi sono trovata per puro caso a Napoli,dove mi sentivo in qualche maniera voluta solo con gli sguardi,con i sorrisi, c'era qualcosa di familiare. Vedevo dei panni fuori che svolazzavano,la gente che parlava da una finestra all'altra. Mi piaceva molto questa cosa, mi riportava alla campagna,io vengo dalla campagna e poi alla fine sono finita a Roma e ho iniziato la vera vita qua, avevo una casa se così si può definire una stanza ammobiliata lavoravo dodici ore al giorno e ho cominciato a scrivere soltanto qui il primo libro che avevo iniziato in Ungheria nel 1946 ma l'ho dovuto buttar via perché sono uscita dal paese clandestinamente. Ho realizzato il mio sogno di scrivere, un sogno che coltivavo fin da bambina e naturalmente ho scritto un libro autobiografico che venne pubblicato nel 1959. Però, quando ho iniziato a scrivere non ho pensato “Oh Dio, sto scrivendo un libro”, io dovevo buttare fuori almeno in parte quel veleno che tenevo dentro che nessuno voleva ascoltare e quindi ho detto la carta sopporta tutto e ho incominciato quando ho imparato abbastanza bene l'italiano, ho finito questo povero libro e da allora non ho mai smesso di scrivere e pubblicare e parlare nelle scuole con i ragazzi da almeno 70 anni quasi, i ragazzi hanno bisogno di sapere.


D: NELLA SUA VASTA PRODUZIONE LETTERARIA, CHE NON SI LIMITA AI TEMI DELL'OLOCAUSTO. HA TRADOTTO, SPESSO IN COLLABORAZIONE CON NELO RISI, I PIÙ GRANDI POETI UNGHERESI, GYULA ILLYÉS, RUTH FELDMAN, ATTILA JÒZEPH E MIKLÓS RADNÓTI. A QUALE POESIA O LIBRO È PARTICOLARMENTE LEGATA? E PERCHÉ?

R: József Attila anche Radnóti, però è molto difficile scegliere tra i poeti, perché in Ungheria c'era una grande tradizione poetica, grandi traduttori anche. Io ho tradotto soltanto due libri dall'Ungherese e poi uno con mio marito, Illyés che è un'altro grande poeta. Negli ultimi anni non riesco a trovare un solo poeta che io possa tradurre, perché volevo ancora tradurre qualcosa, amo molto la poesia da sempre. Dicevo a mia madre:  “Mamma io voglio essere una poeta” 
e lei rispondeva: “Va bene,se vuoi morire di fame”. 
Quando incontrai per la prima volta mio marito Nello Risi non sapevo nulla su di lui neanche il suo nome, lo guardai e dissi ad un mio amico questo è l'uomo della mia vita e così è stato. Oltre ad essere un regista, documentarista, era un poeta anche lui. 


D: PENSA CHE CI SIA QUALCOSA RIGUARDANTE LA SHOAH CHE NON SIA ANCORA STATO DETTO?

R: Ci sono tantissime cose secondo me, credo che non si potrà mai raccontare quello che si è vissuti e visto, impossibile.
Devo dire che io sono stata in centinaia di scuole però non si può dire mai abbastanza perché è molto difficile,da una parte non puoi dire ai ragazzini di quattordici quindici anni quelle mostruosità di cui l'uomo è capace ti autocensuri quasi ti vergogni tu di quello che hai vissuto e da un'altra parte quel dolore e quel vissuto non passa mai vive con te per tutta la vita è una gabbia da cui non si esce,non è possibile uscirne in nessun modo, forse noi stessi ci mettiamo dentro non lo so. Per di più ci sono tutte queste cose che abbiamo vissuto e stiamo vivendo ogni giorno che è impossibile anche se non c'entra nulla con il passato ma diciamo che la guerra d' Ucraina è sempre una mostruosità che l'uomo fa contro il proprio simile.


D: COSA PENSA CHE DEVONO IMPARARE I GIOVANI D'OGGI DALLA VITA CHE ANCORA NON SANNO?  

R: Tante cose. Molti hanno capito, perché lo dimostrano attraverso i loro disegni,le lettere, i messaggi.Il mese scorso sono andata a Assisi c'erano mille ragazzi a questo incontro, provenivano dappertutto è stato molto bello anche se faticoso tra l'altro faceva anche freddo. 
Credo che loro hanno bisogno di sapere perché non c'è molta comunicazione tra genitori e figli, tra nonni e nipoti. Questo è un disastro perché si vive separati all'interno della famiglia forse la voce esterna viene ascoltata. Per un genitore sopravvissuto è difficile raccontare ai figli quello che ha vissuto,non c'è mai tempo di raccontare questa mostruosità anche se è importante, i ragazzi devono sapere per il loro futuro. Devono capire cosa vuol dire il razzismo, l'antisemitismo, l'odio verso il prossimo è molto importante la solidarietà tra esseri umani bisogna allontanarli da qualsiasi pregiudizio.
Per i primi vent'anni piangevo sempre perché era ancora molto fresca la ferita,ogni tanto crollo anche adesso ,questa cosa non è mai superabile dico a me stessa che finché mi sento così e finché l'altro piange (perché ho visto anche ragazzi piangere)vuol dire che sentiamo,vuol dire che siamo sensibili,non siamo diventati di legno. Il problema è che la gente diventa sempre più indifferente come se non li toccasse quello che accade. Io credo che tutto quello che accade ci riguarda anche quello che accade a duemila chilometri ci riguarda.


Desidero ringraziare Edith Bruck  per la sua disponibilità nel concedermi questa intervista.


Intervista a cura di C.L

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