l’ospite di oggi è Ludovica Elder, autrice de I vestiti della domenica, il suo romanzo d’esordio.
Nata nel 1980 a Monfalcone, vive oggi a Milano, mantenendo un forte legame con le sue radici, che affondano nella terra rossa del Carso.
In questa intervista condivide il suo percorso, le ispirazioni e l’universo emotivo che ha dato vita al romanzo.
R. Sono nata a Monfalcone, il porto più a nord dell’Adriatico, dove la bora ti porta via e il confine non è solo una linea sulle carte, ma un modo di stare al mondo. È una città di cantieri, di dialetti che si
mescolano, di partenze e ritorni. Poco più in là c’è Trieste, con la piazza Unità che si affaccia sul mare come un palcoscenico: forse da lì viene il mio bisogno di raccontare storie.
Per studio e per lavoro ho viaggiato, ho vissuto altrove, ma il mio Nord resta quello: il Carso, le pietre, le case sferzate dal vento. Se fossi un personaggio del mio romanzo, sarei una donna con un piede nella tradizione e l’altro pronto a sconfinare. A un certo punto ho capito che non mi bastava
più portarli dentro di me, quei luoghi: dovevo metterli sulla pagina. Così sono nati I vestiti della domenica.
D. COM’È NATA L’IDEA DEL TUO ROMANZO I VESTITI DELLA DOMENICA?
R. È nata da una mancanza. Leggevo molte saghe familiari, romanzi di donne e di uomini immersi nella loro epoca, e mi chiedevo: “E le famiglie della mia terra? Chi le racconta?”. Mi sembrava che ci fosse un vuoto narrativo proprio lì, su quel pezzo d’Europa dove le lingue cambiano da un paese all’altro e la storia lascia segni profondi nei cognomi, nelle abitudini, perfino nei silenzi.
Ho scelto il 1923 perché rappresenta un periodo di frattura: il dopoguerra, le identità che si ridefiniscono, un territorio di confine in cui ogni scelta - politica, affettiva, persino linguistica - ha un prezzo. Quel confine, nel romanzo, non è solo geografico: è il punto in cui ognuno deve decidere
chi vuole essere. Alcuni personaggi possono scegliere, altri subiscono le scelte altrui; ma anche ciò
che ci viene imposto finisce per modellarci.
Il titolo, I vestiti della domenica , parla di questo: di ciò che mostriamo al mondo e di ciò che teniamo nascosto sotto la stoffa buona. È un romanzo “visivo”: le stanze della domenica, le tavole
apparecchiate, gli abiti tirati fuori dall’armadio, il rumore del vento fuori dalle finestre. Mi piace pensare che il lettore possa “vederlo” prima ancora di giudicarlo.
D. C’È UN AUTORE O UN’OPERA CHE TI HA INFLUENZATA PROFONDAMENTE E
CHE RITROVI, IN QUALCHE MODO, NEL TUO STILE NARRATIVO?
R. La verità è che siamo impastati con i libri che abbiamo amato. Se qualcuno trovasse nel mio romanzo un’eco di altre voci, per me sarebbe solo un onore.
Nel mio personale albero genealogico di lettrice, in alto ci sono Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa,
per il modo in cui racconta un intero Paese partendo da una famiglia; il teatro di Pirandello, con quei personaggi che non smettono mai di definirsi; e autori come Paolo Rumiz,
capaci di far sentire fisicamente i luoghi, il viaggio, il paesaggio.
Sono opere diversissime, ma hanno in comune qualcosa che inseguo anch’io: l’essere insieme graffianti e poetici. Se chi legge I vestiti della domenica percepisse anche solo un riflesso lontano di quella intensità, mi considererei più che fortunata.
D. COME VIVI IL RAPPORTO CON I TUOI PERSONAGGI QUANDO LI CREI? TI
ASSOMIGLIANO O SONO L’OPPOSTO DI TE?
R. Non ho copiato nessuno dalla realtà, ma ho prestato ai personaggi emozioni che conosco: la paura
di cambiare, la fedeltà a una terra, la nostalgia per ciò che si è perso e forse non tornerà. Non credo
che mi assomiglino direttamente, ma ciascuno porta con sé un frammento di esperienze che ho vissuto oppure osservato.
Mi interessa soprattutto evitare l’effetto “santino” o “mostro”: i buoni non lo sono mai fino in fondo, i cattivi hanno sempre una crepa di luce. La sfida è proprio questa: mostrare i difetti dei
buoni e i pregi dei cattivi senza snaturarli. È lì che la storia si fa umana.
D. QUAL È LA SFIDA PIÙ GRANDE CHE HAI INCONTRATO COME SCRITTRICE
EMERGENTE, E COME L’HAI SUPERATA (O STAI CERCANDO DI SUPERARLA)?
R. La cosa più difficile è stata smettere di nascondermi. Scrivere è un gesto intimo, quasi segreto; pubblicare significa uscire allo scoperto e dire: “Questa storia porta il mio nome, la potete leggere, giudicare, amare o no”. È un piccolissimo atto di coraggio, e ci ho messo un po’ a compierlo.
Poi c’è una sfida silenziosa, ma enorme: conquistare il tempo dei lettori in un mondo che corre velocissimo.
Io non la vivo come una lotta, piuttosto come un invito: offrire una storia che valga la pena di rallentare.
Quanto agli ostacoli “tecnici”, li ho affrontati con la stessa curiosità con cui affronto la scrittura: ascoltando, imparando, chiedendo consigli.
Ora I vestiti della domenica sono là fuori, naviga da solo. Io gli ho dato il varo, adesso spero trovi porti accoglienti.
D. C'È QUALCOS'ALTRO CHE VUOI AGGIUNGERE... CHE VORRESTI DIRE AI TUOI LETTORI?
R. Vorrei chiedere una cosa piccola e gigantesca insieme: tempo.
I vestiti della domenica non è un libro da leggere di corsa in metropolitana tra una notifica e l’altra.
È un romanzo che funziona meglio se gli si concede un piccolo rituale, come ai vestiti buoni: lo si “indossa” quando si ha voglia di stare un po’ da soli con sé stessi. Staccarsi da Internet e dalla
frenesia dei messaggi a ciclo continuo.
Mi piacerebbe che ogni lettore trovasse, tra le pieghe della storia, un dettaglio che gli somiglia: una scelta mancata, una frase non detta, un gesto di coraggio insospettato. Se, chiudendo L’ultima pagina, qualcuno sentisse che questo libro gli abbia parlato in modo personale, allora l’incantesimo
si potrebbe dire riuscito. Il vero finale, in fondo, lo scrive chi legge.
D. PARLACI DELLE INFLUENZE LETTERARIE CHE HAI AVUTO, DEGLI SCRITTORI CHE AMI.
R. Impossibile, per me, non citare Svevo, e con lui gli scrittori di inizio Novecento. Mi ha sempre affascinato quel momento di scoperta dell’animo umano, con le sue debolezze e unicità. Sono impresse in me Le braci di Sándor Màrai, così come i racconti di Stefan Zweig, o il suo Il mondo di ieri.
Mi piace molto la scrittura di Orhan Pamuk, di Ian McEwan, e della nostra Simonetta Agnello Hornby.
Grazie a Ludovica Elder per essere stata mia ospite.
SINOSSI
La vigna vecchia dei Pàhor guarda Trieste dall’alto delle colline del Carso: tra i filari soffiano l’aria di mare e il sussurro impetuoso della Bora, mitigato dal passaggio verticale sulle rocce. È una sera di settembre e tutto è pronto per la festa di fine vendemmia. Vittorio Stefàncich ha combattuto la Grande Guerra come un eroe. Tornato alla vita comune, fatica a riprendere il suo ruolo nell’azienda di famiglia. Freddo e severo coi dipendenti, imbastisce trattative di mercato militaresche, spietate. Antonia Pàhor è diversa dalle dame che affollano le nobili vie della città: nata in un paese del Carso, ha un animo contadino, buono, e non ha niente in comune con la borghesia triestina che affronta la fine di un’epoca di sfarzo, quella imperiale. Quando s’incontrano alla festa, nel cuore di entrambi scatta qualcosa, come una silenziosa promessa.
Ma la guerra è finita soltanto nelle trincee. Alla vigna vecchia c’è anche Giacomo Ledri, figlio dell’avvocato più in vista della città. Si è sentito dire per una vita intera che, a differenza del migliore amico, Vittorio, è un fallimento. Adesso, con l’ascesa del partito di Mussolini, Giacomo ha intuito che chi si schiererà coi fascisti avrà la strada spianata. Affamato di potere e gloria, decide di sfruttare l’amicizia che lo lega alle facoltose famiglie Pàhor e Stefàncich, che trascinerà con sé tra le fiamme di un secolo breve e violento.
COSA NE PENSO
Con I vestiti della domenica, Ludovica Elder firma un esordio sorprendente per maturità narrativa e cura della lingua. Il romanzo, ambientato tra le colline del Carso e la Trieste del primo Novecento, intreccia le vite di tre protagonisti – Vittorio Stefàncich, Antonia Pàhor e Giacomo Ledri – restituendo un affresco intenso in cui la Storia filtra attraverso gesti quotidiani, silenzi e tensioni familiari.
La vigna dei Pàhor, spazzata dalla Bora e radicata nella pietra carsica, è descritta con tale forza da diventare quasi un personaggio: un paesaggio vivo che riflette la durezza e la fragilità dell’animo umano. La coralità della narrazione è uno dei punti di forza del romanzo: Vittorio, eroe di guerra incapace di ritrovare un ruolo; Antonia, anima contadina luminosa; Giacomo, figura inquieta e ambiziosa, forse il più complesso e riuscito.
Elder tratta il contesto storico – il primo Dopoguerra e l’ascesa del fascismo – senza didascalismi, lasciando che le trasformazioni del Paese emergano attraverso le scelte dei personaggi. La scrittura è controllata, limpida e a tratti poetica, soprattutto nelle descrizioni del Carso, anche se in alcuni momenti il lirismo rallenta il ritmo, già piuttosto misurato nella prima parte.
Tra i limiti dell’opera si nota una caratterizzazione non sempre equilibrata: mentre Vittorio e Giacomo hanno una psicologia sfumata, Antonia resta talvolta più simbolo che figura tridimensionale. Nonostante ciò, il romanzo possiede una forza emotiva notevole e un’atmosfera evocativa che avvolge il lettore.
In conclusione, I vestiti della domenica è un esordio consapevole, ricco di immagini, radici e memoria. Una storia che mette in scena fragilità, desideri e ferite del secolo breve, rivelando una voce narrativa che merita attenzione e che promette sviluppi ancora più maturi. Consigliato. Buona lettura!
© Riproduzione riservata