04 dicembre 2025

LUDOVICA ELDER : LA VOCE NUOVA CHE INCANTA NE “I VESTITI DELLA DOMENICA”



Cari amici e care amiche,

l’ospite di oggi è Ludovica Elder, autrice de I vestiti della domenica, il suo romanzo d’esordio.
Nata nel 1980 a Monfalcone, vive oggi a Milano, mantenendo un forte legame con le sue radici, che affondano nella terra rossa del Carso.

In questa intervista condivide il suo percorso, le ispirazioni e l’universo emotivo che ha dato vita al romanzo.


D. CHI È LUDOVICA?

R. Sono nata a Monfalcone, il porto più a nord dell’Adriatico, dove la bora ti porta via e il confine non è solo una linea sulle carte, ma un modo di stare al mondo. È una città di cantieri, di dialetti che si
mescolano, di partenze e ritorni. Poco più in là c’è Trieste, con la piazza Unità che si affaccia sul mare come un palcoscenico: forse da lì viene il mio bisogno di raccontare storie.
Per studio e per lavoro ho viaggiato, ho vissuto altrove, ma il mio Nord resta quello: il Carso, le pietre, le case sferzate dal vento. Se fossi un personaggio del mio romanzo, sarei una donna con un piede nella tradizione e l’altro pronto a sconfinare. A un certo punto ho capito che non mi bastava
più portarli dentro di me, quei luoghi: dovevo metterli sulla pagina. Così sono nati I vestiti della domenica.

D. COM’È NATA L’IDEA DEL TUO ROMANZO I VESTITI DELLA DOMENICA?

R. È nata da una mancanza. Leggevo molte saghe familiari, romanzi di donne e di uomini immersi nella loro epoca, e mi chiedevo: “E le famiglie della mia terra? Chi le racconta?”. Mi sembrava che ci fosse un vuoto narrativo proprio lì, su quel pezzo d’Europa dove le lingue cambiano da un paese all’altro e la storia lascia segni profondi nei cognomi, nelle abitudini, perfino nei silenzi.
Ho scelto il 1923 perché rappresenta un periodo di frattura: il dopoguerra, le identità che si ridefiniscono, un territorio di confine in cui ogni scelta - politica, affettiva, persino linguistica - ha un prezzo. Quel confine, nel romanzo, non è solo geografico: è il punto in cui ognuno deve decidere
chi vuole essere. Alcuni personaggi possono scegliere, altri subiscono le scelte altrui; ma anche ciò
che ci viene imposto finisce per modellarci.
Il titolo, I vestiti della domenica , parla di questo: di ciò che mostriamo al mondo e di ciò che teniamo nascosto sotto la stoffa buona. È un romanzo “visivo”: le stanze della domenica, le tavole
apparecchiate, gli abiti tirati fuori dall’armadio, il rumore del vento fuori dalle finestre. Mi piace pensare che il lettore possa “vederlo” prima ancora di giudicarlo.

D. C’È UN AUTORE O UN’OPERA CHE TI HA INFLUENZATA PROFONDAMENTE E
CHE RITROVI, IN QUALCHE MODO, NEL TUO STILE NARRATIVO?

R. La verità è che siamo impastati con i libri che abbiamo amato. Se qualcuno trovasse nel mio romanzo un’eco di altre voci, per me sarebbe solo un onore.
Nel mio personale albero genealogico di lettrice, in alto ci sono Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
per il modo in cui racconta un intero Paese partendo da una famiglia; il teatro di Pirandello, con quei personaggi che non smettono mai di definirsi; e autori come Paolo Rumiz,
capaci di far sentire fisicamente i luoghi, il viaggio, il paesaggio.
Sono opere diversissime, ma hanno in comune qualcosa che inseguo anch’io: l’essere insieme graffianti e poetici. Se chi legge I vestiti della domenica percepisse anche solo un riflesso lontano di quella intensità, mi considererei più che fortunata.

D. COME VIVI IL RAPPORTO CON I TUOI PERSONAGGI QUANDO LI CREI? TI
ASSOMIGLIANO O SONO L’OPPOSTO DI TE?

R. Non ho copiato nessuno dalla realtà, ma ho prestato ai personaggi emozioni che conosco: la paura
di cambiare, la fedeltà a una terra, la nostalgia per ciò che si è perso e forse non tornerà. Non credo
che mi assomiglino direttamente, ma ciascuno porta con sé un frammento di esperienze che ho vissuto oppure osservato.
Mi interessa soprattutto evitare l’effetto “santino” o “mostro”: i buoni non lo sono mai fino in fondo, i cattivi hanno sempre una crepa di luce. La sfida è proprio questa: mostrare i difetti dei
buoni e i pregi dei cattivi senza snaturarli. È lì che la storia si fa umana.

D. QUAL È LA SFIDA PIÙ GRANDE CHE HAI INCONTRATO COME SCRITTRICE
EMERGENTE, E COME L’HAI SUPERATA (O STAI CERCANDO DI SUPERARLA)?

R. La cosa più difficile è stata smettere di nascondermi. Scrivere è un gesto intimo, quasi segreto; pubblicare significa uscire allo scoperto e dire: “Questa storia porta il mio nome, la potete leggere, giudicare, amare o no”. È un piccolissimo atto di coraggio, e ci ho messo un po’ a compierlo.
Poi c’è una sfida silenziosa, ma enorme: conquistare il tempo dei lettori in un mondo che corre velocissimo. 
Io non la vivo come una lotta, piuttosto come un invito: offrire una storia che valga la pena di rallentare.
Quanto agli ostacoli “tecnici”, li ho affrontati con la stessa curiosità con cui affronto la scrittura: ascoltando, imparando, chiedendo consigli. 
Ora I vestiti della domenica sono là fuori, naviga da solo. Io gli ho dato il varo, adesso spero trovi porti accoglienti.

D. C'È QUALCOS'ALTRO CHE VUOI AGGIUNGERE... CHE VORRESTI DIRE AI TUOI LETTORI?

R. Vorrei chiedere una cosa piccola e gigantesca insieme: tempo.
I vestiti della domenica non è un libro da leggere di corsa in metropolitana tra una notifica e l’altra.
È un romanzo che funziona meglio se gli si concede un piccolo rituale, come ai vestiti buoni: lo si “indossa” quando si ha voglia di stare un po’ da soli con sé stessi. Staccarsi da Internet e dalla
frenesia dei messaggi a ciclo continuo.
Mi piacerebbe che ogni lettore trovasse, tra le pieghe della storia, un dettaglio che gli somiglia: una scelta mancata, una frase non detta, un gesto di coraggio insospettato. Se, chiudendo L’ultima pagina, qualcuno sentisse che questo libro gli abbia parlato in modo personale, allora l’incantesimo
si potrebbe dire riuscito. Il vero finale, in fondo, lo scrive chi legge.

D. PARLACI DELLE INFLUENZE LETTERARIE CHE HAI AVUTO, DEGLI SCRITTORI CHE AMI.

R. Impossibile, per me, non citare Svevo, e con lui gli scrittori di inizio Novecento. Mi ha sempre affascinato quel momento di scoperta dell’animo umano, con le sue debolezze e unicità. Sono impresse in me Le braci di Sándor Màrai, così come i racconti di Stefan Zweig, o il suo Il mondo di ieri. 
Mi piace molto la scrittura di Orhan Pamuk, di Ian McEwan, e della nostra Simonetta Agnello Hornby.


Grazie a Ludovica Elder per essere stata mia ospite.


In libreria e sugli store online dal 15 aprile 2025 Edizioni Piemme

SINOSSI 

La vigna vecchia dei Pàhor guarda Trieste dall’alto delle colline del Carso: tra i filari soffiano l’aria di mare e il sussurro impetuoso della Bora, mitigato dal passaggio verticale sulle rocce. È una sera di settembre e tutto è pronto per la festa di fine vendemmia. Vittorio Stefàncich ha combattuto la Grande Guerra come un eroe. Tornato alla vita comune, fatica a riprendere il suo ruolo nell’azienda di famiglia. Freddo e severo coi dipendenti, imbastisce trattative di mercato militaresche, spietate. Antonia Pàhor è diversa dalle dame che affollano le nobili vie della città: nata in un paese del Carso, ha un animo contadino, buono, e non ha niente in comune con la borghesia triestina che affronta la fine di un’epoca di sfarzo, quella imperiale. Quando s’incontrano alla festa, nel cuore di entrambi scatta qualcosa, come una silenziosa promessa.
Ma la guerra è finita soltanto nelle trincee. Alla vigna vecchia c’è anche Giacomo Ledri, figlio dell’avvocato più in vista della città. Si è sentito dire per una vita intera che, a differenza del migliore amico, Vittorio, è un fallimento. Adesso, con l’ascesa del partito di Mussolini, Giacomo ha intuito che chi si schiererà coi fascisti avrà la strada spianata. Affamato di potere e gloria, decide di sfruttare l’amicizia che lo lega alle facoltose famiglie Pàhor e Stefàncich, che trascinerà con sé tra le fiamme di un secolo breve e violento.


COSA NE PENSO 

Con I vestiti della domenica, Ludovica Elder firma un esordio sorprendente per maturità narrativa e cura della lingua. Il romanzo, ambientato tra le colline del Carso e la Trieste del primo Novecento, intreccia le vite di tre protagonisti – Vittorio Stefàncich, Antonia Pàhor e Giacomo Ledri – restituendo un affresco intenso in cui la Storia filtra attraverso gesti quotidiani, silenzi e tensioni familiari.
La vigna dei Pàhor, spazzata dalla Bora e radicata nella pietra carsica, è descritta con tale forza da diventare quasi un personaggio: un paesaggio vivo che riflette la durezza e la fragilità dell’animo umano. La coralità della narrazione è uno dei punti di forza del romanzo: Vittorio, eroe di guerra incapace di ritrovare un ruolo; Antonia, anima contadina luminosa; Giacomo, figura inquieta e ambiziosa, forse il più complesso e riuscito.
Elder tratta il contesto storico – il primo Dopoguerra e l’ascesa del fascismo – senza didascalismi, lasciando che le trasformazioni del Paese emergano attraverso le scelte dei personaggi. La scrittura è controllata, limpida e a tratti poetica, soprattutto nelle descrizioni del Carso, anche se in alcuni momenti il lirismo rallenta il ritmo, già piuttosto misurato nella prima parte.
Tra i limiti dell’opera si nota una caratterizzazione non sempre equilibrata: mentre Vittorio e Giacomo hanno una psicologia sfumata, Antonia resta talvolta più simbolo che figura tridimensionale. Nonostante ciò, il romanzo possiede una forza emotiva notevole e un’atmosfera evocativa che avvolge il lettore.
In conclusione, I vestiti della domenica è un esordio consapevole, ricco di immagini, radici e memoria. Una storia che mette in scena fragilità, desideri e ferite del secolo breve, rivelando una voce narrativa che merita attenzione e che promette sviluppi ancora più maturi. Consigliato. Buona lettura! 


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01 dicembre 2025

DICEMBRE: IL MESE CHE SUSSURRA LUCE


Dicembre arriva sempre in punta di piedi, con quel modo tutto suo di avvolgere le giornate in un’aria più lenta, più morbida, quasi sospesa.
È il mese delle attese, dei ritorni, dei piccoli gesti che sanno scaldare più di un fuoco acceso. Le luci si accendono piano, una a una, come se la città intera cercasse di ricordarci che la bellezza sa resistere a tutto: al freddo, alla distanza, persino al tempo.

E mentre prepariamo le nostre case alla festa più luminosa dell’anno, un pensiero lieve ma necessario si fa strada: quello rivolto a chi vivrà questo Natale lontano dalla pace.
A chi accenderà una candela non per tradizione, ma per speranza.
A chi aspetta una voce, un abbraccio, un ritorno.
A chi conosce la fragilità dei giorni e la forza dei sogni.

Dicembre ci ricorda che la gentilezza è un dono che non costa nulla, che una parola può diventare rifugio e che un abbraccio, anche se solo immaginato, può attraversare montagne, confini e tempeste.

Che questo mese possa portare luce anche dove sembra impossibile.
Che possa accarezzare chi soffre, sostenere chi resiste, abbracciare chi spera.

E a noi, che abbiamo il privilegio della calma, possa insegnare a non darla mai per scontata.


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26 novembre 2025

INTERVISTA A WANDA MARASCO : LA VOCE DELLA MEMORIA




Miei cari amici lettori,

l’ospite di questa nuova intervista è Wanda Marasco, una delle voci più intense e poetiche della narrativa italiana contemporanea. Poetessa, drammaturga e scrittrice dalla sensibilità profonda, Marasco nel 2025 ha conquistato la 63ª edizione del Premio Campiello con il romanzo Di spalle a questo mondo, un’opera capace di toccare le corde più intime della memoria e dell’identità.

Una scrittrice che trasforma emozioni e ricordi in letteratura viva.

D. COSA L’HA SPINTA A SCEGLIERE FERDINANDO PALASCIANO COME FIGURA CENTRALE DEL ROMANZO E QUALE ASPETTO DELLA SUA PERSONALITÀ L’HA MAGGIORMENTE AFFASCINATA?
 
R. L’idea di narrare la storia di Ferdinando Palasciano è nata mentre scrivevo Il genio dell’abbandono. Cominciai a studiare, a indagare. La torre che lui fece erigere sulla collina di Capodimonte appartiene alla mitopoietica dei miei luoghi pubblici, è il paesaggio che vedevo dai balconi di casa. È stato naturale, dunque, per le suggestioni ricevute dal luogo e dalle leggende che circolavano su Ferdinando e Olga, scegliere di scrivere la storia di chi l’aveva abitata. Inoltre Palasciano e Gemito (lo scultore pazzo protagonista de Il genio dell'abbandono) avevano in comune alcune ferite e soprattutto la follia causata da dolori e disillusioni. 
Palasciano fu uomo profondamente etico, ossessionato dall’ideale della cura da dedicare a tutte le creature viventi e dall’utopica convinzione che la scienza e la politica dovessero agire in sinergia per il bene dell’umanità. Come ho detto spesso Palasciano può essere paragonato a Gino Strada per il profondo senso etico, lo slancio filantropico e lo spirito battagliero.

D. NEL LIBRO LA FOLLIA DI PALASCIANO DIVENTA UNA LENTE ATTRAVERSO CUI LEGGERE LA SUA VICENDA UMANA. IN CHE MODO HA LAVORATO SUL RAPPORTO TRA LUCIDITÀ E PAZZIA ?

R. La follia in Ferdinando è un cammino che conduce alla sapienza. È la “cecità” che permette di vedere meglio le insensatezze della Storia e della condizione umana.
È la voce del fool a cui è concesso di dire la verità. É un metodo di svelamento. 

D. LA SUA SCRITTURA INTRECCIA SEMPRE REALTÀ STORICA E INVENZIONE LETTERARIA : COME HA BILANCIATO LA FEDELTÀ AI DOCUMENTI STORICI CON LE ESIGENZE NARRATIVE ?

R. Nei miei romanzi le ricerche hanno sempre due direzioni: una storica e l'altra psicologica. Ho narrato le vicende vissute da Ferdinando Palasciano e da Olga Vavilova andando a ristudiare gli eventi dell’epoca. Ho consultato riviste scientifiche, visitato luoghi e dialogato con esperti di storia della medicina. Il dettaglio doveva essere preciso, ma serviva soprattutto a scolpire l’ambientazione e il tempo in cui inserire la reinvenzione dei moti del cuore e della psiche dei due. Una biografia di anime. 

D. NAPOLI E IL CONTESTO DEL SUO TEMPO HANNO UN RUOLO DECISIVO NELLA VITA DI PALASCIANO . CHE TIPO DI CITTÀ E DI ATMOSFERA EMERGE IN DI SPALLE A QUESTO MONDO?

R. Napoli è un personaggio del romanzo. Emerge con la sua bellezza e le sue piaghe. È allo stesso tempo Luogo dei luoghi e non-luogo, rappresenta un inferno animato dall’idea del paradiso da distruggere. È un paese afflitto da chi lo divora per dominarne l’economia o per sopravvivere. Le sue contraddizioni possono generare la necessità di una forma di esilio e di canto che in fondo sono le dimensioni da cui Ferdinando e Olga esprimono il rifiuto del loro mondo, caratterizzato da iniquità e corruzione. 

D. LA FIGURA DEL MEDICO PALASCIANO È ANCHE UN SIMBOLO DI RESISTENZA ETICA . IN CHE MODO HA VOLUTO RACCONTARE IL CONFLITTO TRA IL DOVERE PROFESSIONALE E LE PRESSIONI DEL POTERE?

R. Palasciano è un uomo che si fa carico del dolore del mondo. Questo grande medico ha combattuto per l’ideale della “cura”, ha proclamato per primo il principio di neutralità su cui si basa la Croce Rossa Internazionale, rischiando la vita pur di affermare le proprie convinzioni. Ha lottato per l’educazione e la giustizia. E come ogni uomo profondamente etico viene perseguitato. In lui il conflitto tra il dovere professionale, sintesi di ogni suo ideale etico, e le pressioni del potere si esprime attraverso un atteggiamento “rivoluzionario”. Ferdinando sancisce il suo netto e coraggioso rifiuto di ogni forma di corruzione e di iniquità e lo fa in quanto medico e in quanto uomo politico con i suoi appassionati discorsi in Parlamento. “Voleva correggere la Storia”, si dice ad un certo punto nel romanzo. Percepisce su di sé il peso delle grandi conflagrazioni che determinano nel quotidiano ingiustizie sociali, solitudine e ferite contro cui conduce una lotta che lo porta al distacco dalla realtà. 

D. NELLA COSTRUZIONE DEL ROMANZO HA SCELTO UNO STILE FORTEMENTE EVOCATIVO E VISIONARIO. QUANTO LA SUA ESPERIENZA POETICA HA INFLUITO SULLA RESA NARRATIVA DI QUESTA VICENDA ?

R. Più che di esperienza parlerei di istintualità poetica. La narrazione, nelle mie pagine, nasce dall’unificazione di questa istintualità e della mia formazione teatrale. Il personaggio per me è “dramatis personae”, maschera da indossare per svelare qualche verità umana. Ho espresso scavo e immedesimazione servendomi dell’alternanza dei registri, in prevalenza attraverso l’uso di una prosa lirica che meglio si prestava a divenire canto, drammatica trasfigurazione e partitura della coscienza.
 
D. DOPO Di SPALLE A QUESTO MONDO, QUALI DIREZIONI IMMAGINA PER I SUOI FUTURI PROGETTI LETTERARI ?
 
R. Ho in cantiere un nuovo lavoro, ma non mi piace parlarne. Oltretutto sarebbe difficile raccontare qualcosa che potrebbe essere suscettibile di infinite variazioni. Posso soltanto anticiparvi che questa volta il racconto si svolgerà nel nostro presente.


Grazie a Wanda Marasco per aver risposto alle mie domande e per la sua disponibilità.

In libreria e sugli store online dal 17 settembre 2025 Neri Pozza


SINOSSI 

Se è vero che ogni esistenza viene al mondo per incarnare un dramma, quello di Ferdinando Palasciano e di sua moglie Olga Pavlova Vavilova è tra i più dolenti e irriducibili: è il dramma dell’imperfezione. Fin da bambino Ferdinando ha odiato la morte al punto da fare della salvezza la sua ossessione di medico. Ma una vocazione così grande, scontrandosi con le iniquità subite, non può che fallire e trovare casa nella follia. Olga, nella sua infanzia a Rostov, ha dovuto misurarsi proprio con l’alienazione materna, quintessenza di Storia e fragilità. Unico scampo da essa la fuga, frenata da una radice nascosta sotto la neve e dalla zoppia, che diventa destino e comunione con l’imperfetto. Ma si può vivere a un passo dall’ideale? Ferdinando, dal buio della sua ratio opacizzata, continuerà a salvare asini e pupi; mentre Olga, pur guarita dalla scienza e dall’amore di Ferdinando, tornerà a claudicare. Voi non credete che quando ci spezziamo è per sempre? La domanda che Olga rivolge al pittore Edoardo Dalbono è sintesi di una irreparabilità e di una caduta che restano perenni.



COSA NE PENSO

Un libro scritto con grande maestria, che racconta la vita di Ferdinando Palasciano, figura forse poco conosciuta ai più, ma che merita di essere riscoperta. Uomo e, soprattutto, medico, Palasciano pose la sua professione al di sopra di tutto, curando con la stessa scienza e coscienza sia i feriti borbonici che i rivoltosi, senza dimenticare i numerosi civili vittime della feroce e indiscriminata repressione. Non solo: durante il colera a Napoli si prodigò per assistere i poveri e gli ultimi.

La sua esistenza, tuttavia, fu segnata da terribili ingiustizie che lo costrinsero a vivere quasi nell’ombra di sé stesso. Non voglio rivelare troppo di questa vicenda, ma posso dire che mi ha toccata profondamente. Le fragilità umane emergono come uno schiaffo morale alla dignità dell’uomo, rendendolo vulnerabile. Di spalle a questo mondo: quando la medicina diventa coscienza.  

In questo percorso doloroso, però, l’amore si rivela come forza capace di tutto: si fa cura, carne, persino malattia, grazie alla presenza instancabile di sua moglie, Olga de Wavilow. La forza di Olga è qualcosa di unico: sin dalle prime pagine la sua figura mi ha colpito, pur nel dolore di figlia e poi di moglie, segnata dall’infanzia difficile e dalla nevrosi materna. Non si può parlare di Ferdinando Palasciano senza citare lei, Olga de Vavilov, moglie, sodale, compagna non solo nella vita privata, ma motivatrice, sostenitrice di molti dei suoi ideali.

A tratti il testo diventa denso, le parole si fermano e lascia spazio al cuore, che prende il sopravvento. 

«Penetriamo. Facciamolo ogni giorno quest'attacco alla verità. È un atto poetico. La poesia non imbroglia nessuno e nessuno può seppellirla. Il resto, buffonerie per essere accoppati. So che ha ragione. Si deve finire con un'illusione che resista a lungo. Adesso c'è il disgusto di questi giorni, ma mi inchino davanti alla pazzia di Ferdinando che vuole la verità.» 

In conclusione, un libro intenso, che consiglio davvero a tutti. Buona lettura! 


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25 novembre 2025

25 NOVEMBRE – LE PAROLE CHE RESTANO QUANDO TUTTO IL RESTO TREMA.


Ci sono giorni in cui la scrittura sembra un gesto minimo, fragile, quasi inadeguato.
Eppure, proprio oggi, scrivere diventa un atto necessario.

Il 25 novembre non è una semplice ricorrenza: è una fenditura nella coscienza collettiva.
È il giorno in cui siamo chiamati a guardare dentro l’angoscia che attraversa le vite di tante donne — un’angoscia che non appartiene al passato, ma respira nel presente, nelle case, nelle strade, nei silenzi che nessuno ascolta.

La letteratura ci ha insegnato che ogni storia taciuta pesa come una pietra.
Ogni donna che vive nella paura è una pagina strappata al suo stesso destino.
Ogni vita spezzata è un romanzo che non leggeremo mai.

Oggi scrivere significa dare un nome a ciò che spesso resta nascosto:
le crepe nelle relazioni, le ombre dietro le porte, la normalità ingannevole dei gesti che feriscono.
Significa ricordare che la violenza non è un fatto privato, ma un fallimento collettivo.

Che sia attraverso un verso, un pensiero o un racconto, abbiamo il dovere di continuare a parlare, raccontare, denunciare.
Perché la parola, quando è sincera, può diventare un luogo sicuro.
Può offrire riparo, coraggio, memoria.

In questa giornata, il nostro compito è semplice e immenso:
scrivere per non dimenticare, scrivere per chi non ha più voce, scrivere perché nessuna donna debba temere la propria vita.

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18 novembre 2025

RECENSIONE DEL LIBRO:QUANDO IL MONDO DORME: “UNO SQUARCIO DI VERITÀ CHE ATTRAVERSA IL SILENZIO”


In libreria e sugli store online dal 23 luglio 2025 Rizzoli libri



NOTE SULL’AUTRICE 

Francesca Albanese è una funzionaria delle Nazioni Unite, giurista esperta di diritto internazionale, specializzata in diritti umani e Medio Oriente. Il 1º maggio 2022 è stata nominata Relatore Speciale sulla Situazione dei Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967 per un mandato di tre anni, succedendo al canadese Michael Lynk. È la seconda persona italiana dopo Giorgio Giacomelli, nonché la prima donna, a ricoprire questo incarico.
Come relatrice speciale delle Nazioni Unite, ha avuto il coraggio di denunciare l'occupazione, l'apartheid, il genocidio e i crimini commessi contro la popolazione di Gaza.
«Da soli siamo fragili come le ali di una farfalla, ma uniti - solidi e solidali - possiamo fare tempesta. … È nell’interconnessione delle lotte per l’emancipazione e la libertà - individuale o collettiva - che dobbiamo ritrovare il nostro solidum. Insieme possiamo affrontare qualsiasi sfida. Quindi battiamo le ali, facciamo la tempesta, anzi, come si dice dalle mie parti, facciamo ammuìna!" dal libro della Albanese Quando il mondo dorme, pubblicato da Rizzoli nel 2025.

SINOSSI 

Lo spirito di un luogo è fatto dalle persone che lo abitano, dalle storie che si intersecano nelle sue strade. E questo vale in modo particolare per la Palestina, custode di passaggi storici epocali e teatro di una delle più dolorose pagine di storia contemporanea. Francesca Albanese, la Relatrice speciale ONU sul territorio palestinese occupato, una delle persone più competenti e autorevoli sullo status giuridico e sulla situazione dei palestinesi - amata (o odiata) in tutto il mondo per l'integrità e la passione con cui si batte in favore dei diritti di un popolo troppo a lungo vessato - qui ci offre storie che intrecciano informazioni, riflessioni, emozioni e vicende intime. Un viaggio scandito da dieci persone che hanno accompagnato Francesca a comprendere storia, presente e futuro della Palestina. Hind Rajab, morta a sei anni sotto le bombe che hanno distrutto Gaza, ci apre gli occhi su cosa significhi essere bambini in un Paese dove i bambini non hanno un nidoche li protegga e che rispetti le loro radici. Abu Hassan ci guida tra i luoghi di fatica e sofferenza ai margini di Gerusalemme; e George, amico stretto, di Gerusalemme ci mostra meraviglia e insensatezze. Alon Confino, grande studioso dell'olocausto, ci aiuta a comprendere i contrasti che possono albergare nel cuore di un ebreo che vede l'apartheid e ne vuole la fine. Ghassan Abu-Sittah, chirurgo arrivato da Londra per entrare nel vivo dell'orrore più inimmaginabile, ci racconta ciò che ha visto; e Malak Mattar, giovane artista che ha fatto il percorso inverso, condivide la storia di chi ha dovuto lasciare Gaza per potersi esprimere o per sopravvivere. E poi Ingrid Jaradat Gassner, Eyal Weizman, Gabor Maté fino a una delle persone più vicine a Francesca nella vita, così come nella ricerca di una consapevolezza capace di tradursi in azione.

COSA NE PENSO

Un libro necessario, che chiede di non distogliere più lo sguardo. 
Ci sono libri che non si limitano a raccontare: interrompono il silenzio. Quando il mondo dorme di Francesca Albanese appartiene a questa categoria rara e scomoda di opere che non cercano consenso, ma consapevolezza. Con lucidità, rigore e un dolore che non si maschera mai dietro l’accademia, Albanese ci conduce dentro le atrocità della guerra e del genocidio in Palestina, offrendo una testimonianza che è insieme personale, politica e profondamente umana.
La forza del testo risiede nella precisione con cui l’autrice espone fatti, dinamiche e responsabilità internazionali, ma anche nella capacità di intrecciare queste analisi con la voce di chi in quella terra ci è nato e continua a raccontarne l’agonia. Albanese richiama nomi autorevoli della cultura palestinese, figure che hanno trasformato il dolore in parole, resistenza, memoria. Quel coro di voci diventa il contrappunto essenziale al suo lavoro alle Nazioni Unite: un lavoro che non rimane mai astratto, ma si fa carne, ferita, urgenza morale.
Leggere questo libro significa confrontarsi con uno “squarcio sulla realtà” che il cuore fatica a contenere. Le atrocità narrate – bambini, donne, uomini, anziani strappati alla vita senza ragione – superano la capacità umana di comprensione. Eppure, Albanese ci chiede di restare, di ascoltare,di non voltare lo sguardo. Alcuni passaggi arrivano come colpi inferti da un pugnale: precisi, necessari, impossibili da ignorare. Molti meritano di essere sottolineati e riletti, perché raccolgono secoli di ingiustizie, di guerre passate, di genocidi in cui le vittime non hanno mai ottenuto piena giustizia e continuano a gridare la loro verità.
Tra le storie più sconvolgenti evocate nel libro c’è quella di Hind Rajab, morta a soli sei anni dopo il 7 ottobre 2023. La sua vicenda, raccontata con pudore e straziante rispetto, incarna la brutalità di un conflitto che divora vite innocenti e lascia cicatrici impossibili da rimarginare. Ma Albanese, pur nella denuncia, mantiene sempre lo sguardo rivolto alla dignità delle persone, alla memoria che resta, alla voce che non si spegne.
Un altro passaggio di grande rilievo è dedicato al poeta palestinese Refaat Alareer, ucciso dopo aver dedicato la vita a dare voce ai giovani scrittori e scrittrici di Gaza. 

“Se dovessi morire, 
tu devi vivere 
per raccontare 
la mia storia 
per vendere le mie cose 
per comprare un poʼ di carta e qualche filo, per farne un aquilone 
(fallo bianco con una lunga coda) 
cosicché un bambino, 
da qualche parte a Gaza, 
guardando il cielo 
negli occhi 
in attesa di suo padre che
se ne andò in una fiamma 
senza dare l'addio a nessuno 
nemmeno alla sua stessa carne 
nemmeno a se stesso 
veda lʼaquilone, il mio
aquilone che tu hai fatto, 
volare là sopra 
e pensi per un momento 
che un angelo sia lì 
a riportare amore. 
Se dovessi morire, 
faʼ che porti speranza 
faʼ che sia un racconto!” 

(Refaat - If I must die


Il suo progetto Gaza Writes Back non è solo una raccolta di racconti, ma un manifesto identitario: perché narrare la propria storia significa resistere, riconoscersi, esistere. Significa sottrarre le vite palestinesi alla disumanizzazione e restituire loro nome, volto, memoria.
Con Quando il mondo dorme, Francesca Albanese costruisce dunque un testo che è insieme denuncia politica e opera di testimonianza, sostenuta da una scrittura chiara, vibrante, profondamente empatica. È un libro che scuote, che ferisce, ma soprattutto che obbliga a pensare e a prendere posizione.
In un tempo in cui l’indifferenza è spesso più rumorosa delle bombe, leggere questo libro è un atto di responsabilità civile.
Un invito a comprendere, ad ascoltare, a non lasciar dormire la nostra coscienza mentre il mondo, altrove, continua a bruciare.
In conclusione, un’opera necessaria. Un libro che tutti dovrebbero leggere.




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01 novembre 2025

PIER PAOLO PASOLINI, CINQUANT’ANNI DOPO.



Sono passati cinquant’anni dalla notte in cui Pier Paolo Pasolini fu ucciso.
Cinquant’anni da quando una voce scomoda, irriducibile, è stata spenta nel fango di Ostia. Eppure, nulla di lui è davvero taciuto.

Per me Pasolini non è soltanto un autore: è un interrogativo ancora aperto, un dolore lucido che attraversa generazioni.
Nelle sue parole sento ardere una fede laica nell’uomo, nel popolo, nella verità che nessun potere può addomesticare.
Ha amato le contraddizioni, ha denunciato l’ipocrisia, ha difeso la libertà del pensiero quando significava restare soli.

Lo ricordo non come un martire, ma come un testimone: di un’Italia che cercava se stessa, di una coscienza che non smette di lottare.
La sua lezione è ancora qui, a ricordarmi che la poesia non consola, ma ferisce.
E che solo chi osa guardare la realtà senza veli può davvero cambiarla.

«Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpe istituitisi a sistema di protezione del potere). Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare ciò che non si sa o che si tace.»

(Pier Paolo Pasolini, “Io so”, Corriere della Sera, 14 novembre 1974) 

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27 ottobre 2025

LE DONNE , LA TERRA , LA VITA – INTERVISTA A BIBBIANA CAU SUL MONDO DE “LA LEVATRICE.”



Cari lettori, 

L’ospite di oggi è Bibbiana Cau, autrice de “La levatrice” .
Nata e residente in Sardegna, Bibbiana ha dedicato la sua vita alla nascita, accompagnando con passione e competenza centinaia di nuove vite nel loro primo respiro.
La sua formazione in Ostetricia all’Università di Cagliari si intreccia con un profondo amore per la lettura e la scrittura, nato durante la stesura della sua tesi in Storia sociale.

Dopo la laurea in Educazione degli adulti e Formazione continua all’Università Roma Tre, ha approfondito la scrittura e la narrazione attraverso corsi alla Scuola Holden di Torino, di Medicina narrativa e di Londra Scrive con Marco Mancassola.

Con “La levatrice” , suo esordio letterario, Bibbiana Cau dà voce a una storia intensa e autentica, capace di unire la forza delle donne, la memoria collettiva e la poesia della vita che nasce.


D. COME NASCE L’IDEA DE LA LEVATRICE? C’È STATO UN MOMENTO PRECISO CHE L’HA ISPIRATA?

R. La storia di Mallena arriva da lontano.
Da sempre amo leggere e studiare e una quindicina di anni fa, mi trovavo a preparare una tesi in Storia sociale su come è cambiato il modo di nascere negli ultimi cento anni, attraverso la storia delle ostetriche. Cercando il materiale necessario, chiuse negli archivi storici, nei registri parrocchiali e in quelli degli uffici anagrafe dei Comuni, ho trovato tante vite di donne che hanno avuto un ruolo centrale all’interno della comunità, tanto da essere le uniche che potevano amministrare il battesimo, in caso di necessità.
La dualità delle loro vite, strette tra forza e silenzio, quello della storia che le ha dimenticate, mi hanno toccato nel profondo e continuavano a farlo nonostante il passare del tempo. 


D. QUANTO TEMPO HA DEDICATO ALLA RICERCA STORICA PRIMA DI INIZIARE A SCRIVERE? 

R. Dopo essermi laureata in Scienze dell’Educazione degli adulti e Formazione Continua, il bisogno di dare a quelle donne di un secolo fa la voce negata, fatto maturare l’idea di impegnarmi per trasformare quel materiale in qualcosa che permettesse un respiro più ampio di una tesi di laurea e lì è iniziato il mio viaggio verso il romanzo.
Frequentare corsi di scrittura e acquisire nuove competenze era il percorso che scelsi. Avevo già partecipato a corsi di Medicina narrativa presso le Aziende Sanitarie Locali sarde, ho continuato con la scrittrice Eleonora Sottili che insegna alla scuola Holden di Torino, passando poi ai corsi di base e avanzati, fino a quelli di “Londra Scrive” con Marco Mancassola, uno scrittore raffinato e attento, che mi ha insegnato a soffermarmi su aspetti specifici della scrittura.
Se il romanzo l’ho scritto in poco più di un semestre, arrivare a possedere le competenze necessarie per poter dar vita a un racconto che non fosse solo storicamente fondato, ha richiesto molto più tempo. Sono stati anni di impegno, studio e fatica.


D. ESSENDO LEI STESSA UNA LEVATRICE, QUANTO DELLA SUA ESPERIENZA PERSONALE HA INFLUENZATO LA SCRITTURA DEL ROMANZO?

R. Il romanzo tratta temi sociali che mi stanno a cuore, ma anche altri che conosco bene. Ogni parto che ho assistito, ogni incontro con le donne che ho accompagnato nei momenti più intimi e della loro vita, mi ha arricchito. Per cui, sì, la mia esperienza professionale e umana ha influenzato la scrittura permettendomi di raccontare non solo la forza delle donne, ma anche riflettere la maternità, quella espressa e quella negata, scrivere con più autenticità di carne, di sangue, di corpi che parlano anche attraverso le cicatrici che portano fuori e quelle di dentro.
La storia racchiude la vita di tante levatrici: quelle diplomate all’università, quelle patentate e abilitate dopo un esame pratico e quelle pratiche e totalmente analfabete che, con solide conoscenze empiriche, fino a un secolo fa, assistevano le donne, e non solo durante il parto. Molte di loro operavano animate da spirito di solidarietà femminile, ben conoscendo le difficili condizioni di vita delle donne nella loro comunità.
Seppur ambientato in Sardegna, quanto ho scritto si avvicina alla realtà storica di molte zone del resto della penisola, in particolare quelle rurali e isolate.
 

D. NEI SUOI PERSONAGGI C’È TANTA RESILIENZA FEMMINILE: IN QUALE SI RIVEDE DI PIÙ?

R. Non posso dare una risposta univoca, un po' in entrambe.
Sono una ostetrica che ha sempre lavorato nel campo della salute pubblica e conosco bene la fatica dei turni notturni e festivi, delle reperibilità, della gestione delle tante pressioni e emozioni durante le emergenze ostetriche e ho vissuto le criticità della sanità degli ultimi decenni.
Chiunque abbia lavorato per oltre anni e in qualsiasi ambito lo abbia fatto, sa bene quanta capacità di resilienza sia necessaria per fronteggiare la complessità che il lavoro richiede, per affrontare le sfide che si presentano e cercare di superare i conflitti.
Per me la resilienza può essere un fattore protettivo contro il burn out, altrimenti capace di travolgere chiunque quando non si riesce più a dare senso, né pienezza all’esperienza del curare.


D. QUAL È STATA LA PARTE PIÙ DIFFICILE DA SCRIVERE: RICOSTRUIRE L'EPOCA O DARE VOCE ALLE EMOZIONI DEI PROTAGONISTI?

R. Ricostruire l’epoca storica con la sua complessità sociale e culturale, ha richiesto tempo per la ricerca e tempo per la selezione in poche parole, di concetti che richiedevano spazi ben più ampi. La sfida più impegnativa è stata dare voce alle emozioni più intime e ai sentimenti dei protagonisti, che non seguono schemi logici. Ho cercato di non perdere l’autenticità emotiva in quel contesto storico pesante.
Penso che, come nella vita, anche nella letteratura, le emozioni vive e autentiche possano connettere lettrici e lettori con i personaggi e siano capaci, attraversando il tempo e lo spazio, di parlare una lingua universale.


D. COSA SPERA CHE I LETTORI PORTINO CON SÉ DOPO AVER CHIUSO IL LIBRO?

R. Il fatto che La levatrice abbia trovato un pubblico di lettrici e lettori così ampio, mi lascia sperare che possano portarsi dentro una emozione. E chissà… forse una riflessione sul valore della resilienza, sulla consapevolezza circa la forza che ognuno di noi possiede, pur senza saperlo. Riconoscendo nelle sfide del cambiamento opportunità di crescita, anche ripensando al valore e al senso che si vuole dare all’umano. 


D. E DOPO LA LEVATRICE, POSSIAMO GIÀ ASPETTARCI UN NUOVO PROGETTO?

R. Al momento la risposta sarebbe prematura. Le storie che trattano i temi sociali mi stanno a cuore da sempre, anche quelle dove il confine tra realtà e leggenda si fa sottile. Ma la scrittura, per me è un viaggio che richiede tempo, e voglio rispettare il mio ritmo.


Grazie a Bibbiana Cau per aver risposto alle mie domande e per la sua disponibilità.


In libreria e sugli store online dal 27 maggio 2025 Editrice Nord



SINOSSI 

Custode di un sapere antico, una donna lotta per far nascere il futuro. Non è una di loro, Mallena. Un giorno di sedici anni prima è arrivata a Norolani insieme con Jubanne, cui è bastato un attimo per innamorarsi e che l'ha sposata per proteggerla da un destino che gravava su di lei come una condanna. Eppure, per gli abitanti di quel paese dove il maestrale porta il respiro del mare, ormai è diventata un punto di riferimento. Perché Mallena è unallevadora che, mettendo in pratica il sapere antico tramandatole dalla madre, assiste tutte le partorienti, anche quelle delle famiglie più umili, senza mai pretendere nulla in cambio. Ma tutto precipita nel settembre 1917, quando Jubanne torna dal fronte ferito nel corpo e nell'anima. Per pagargli le cure necessarie, Mallena chiede a gran voce al consiglio comunale di essere remunerata per il suo lavoro e, ancora una volta, quel sussidio le viene negato. Come se non bastasse, in conformità a un decreto regio, viene assunta un'ostetrica diplomata, destinata a sostituirla. Arriva dal continente, Angelica Ferrari: nonostante la giovane età, per essere lì ha combattuto a lungo, sfidando le convenzioni sociali e la disapprovazione del padre, che voleva relegarla tra le mura domestiche, sposata con un buon partito. E adesso deve lottare contro la diffidenza delle donne del paese, che la vedono come un'estranea e rifiutano le sue cure. Dovrebbero essere rivali, Mallena e Angelica, invece sono le due facce della stessa medaglia, entrambe spinte dal desiderio di libertà e indipendenza, entrambe tradite dalle persone che avrebbero dovuto proteggerle e vittime della quotidiana ingiustizia che il mondo sa riservare soprattutto alle donne. Tuttavia, quando la situazione si farà insostenibile e i fantasmi del passato torneranno a bussare alla porta di Mallena, sarà proprio l'intera comunità di Norolani a pretendere che, per una volta, si faccia davvero giustizia. Una grande storia al femminile che, attraverso la lingua, i profumi, la poesia e la ruvidezza della vita quotidiana nella Sardegna d'inizio Novecento, narra di gente umile e schiva, ma unita da un profondo senso di comunità. E di una protagonista che, grazie a una saggezza ancestrale e alla solidarietà delle altre donne, matura in sé una nuova e luminosa consapevolezza. 



COSA NE PENSO

La levatrice è un romanzo forte e coraggioso, proprio come la sua protagonista, Mallena: una donna dal carattere fiero, temprata dal dolore e dalla vita, capace di trasformare ogni ferita in saggezza.
Fin dalle prime pagine, la scrittura intensa di Bibbiana Cau avvolge il lettore e lo conduce in un universo femminile dove la solidarietà tra donne diventa respiro, rifugio, rinascita. Madri, figlie e sorelle si intrecciano come fili di un unico destino, formando un legame indissolubile che sfida il tempo e la miseria.

Non si parla soltanto di nascite, in questo romanzo, ma anche di ciò che precede e accompagna la vita: la violenza taciuta, il dolore nascosto dietro le mura domestiche, la vergogna silenziosa che pesa come una colpa non propria.
Eppure, tra le ombre, emerge una luce antica — quella del coraggio femminile — che illumina anche le pagine più dure.

«Nessuno mi ha detto nulla, voi due mi avete detto tutto», scrive l’autrice, e in questa frase si racchiude l’essenza del romanzo: la forza dei gesti, degli sguardi, di ciò che le parole non riescono a dire.

Leggendo, si avverte la nostalgia di un tempo in cui, pur tra restrizioni e povertà, la vita appariva più autentica, più vera di quella che spesso viviamo oggi. La levatrice non è soltanto una storia: è un ritorno alle radici, un invito a riconoscere nelle antiche tradizioni popolari la nostra identità più profonda, da custodire e tramandare.

Una lettura consigliata, scritta con sensibilità, precisione e un raro equilibrio tra dolore e bellezza.